New York: fotoracconto di Maurizio Mercuri
New York, 9-18 febbraio 2017
fotoracconto di Maurizio Mercuri
Il piccolo aereo stilizzato sugli schermi di bordo continuava a marcare sempre sulla stessa linea quello che sembrava uno perfetto ovale, come a voler attirare la nostra attenzione per farci capire che Manhattan era sotto ai nostri piedi. Eravamo in America, un piccolo sogno che si stava avverando precisamente tre mesi dopo rispetto a quando Simone, seduto attorno a un tavolo bandito a festa, se ne uscì con queste parole: “Sarebbe bello fare un viaggio a NEWYORK noi quattro“. A tenerci ben svegli però ci aveva pensato una piccola creatura del buon Dio, che da quando l’aereo aveva iniziato le manovre di atterraggio, era stata ferma nel sottolineare la sua immensa gioia con un pianto inconsolabile. In quel momento, dopo le tre ore di ritardo alla partenza, un principio di congelamento da aria condizionata, dopo aver mangiato una cosa simile a del cibo e aver visto tre film… se avessimo avuto un paracadute ci saremmo buttati dal finestrino.
Giunti finalmente a terra scopriamo di essere tra i primi aerei a tratta intercontinentale atterrati, dopo diverse ore di chiusura della pista a causa di una tempesta di neve. Questo piccolo contrattempo ci dà però la possibilità di effettuare i controlli della dogana senza le tanto famigerate code chilometriche in perfetta fila indiana, riportate su tutte le guide. Finalmente una volta fotografati e schedati come prigionieri, siamo “liberi“ di attendere le nostre valigie. Sono quasi le sette di sera, ma per il famoso jet lag è come se fosse l’una di notte. Recuperati i nostri bagagli siamo pronti per affrontare l’America. Appena le porte scorrevoli a vetro si aprono, capiamo subito che piega avrebbe preso il nostro viaggio. Un vento gelido spazza nuovamente la neve dai cumuli ai bordi della strada lungo la carreggiata, come a voler cancellare le impronte degli innumerevoli taxi, rigorosamente gialli.
Prima di partire, avevo recuperato alcune dritte riguardo ai luoghi da dover assolutamente visitare, dove mangiare e soprattutto dove andare a cogliere particolari scorci. Devo ammettere di aver sottovalutato soltanto una delle dritte ricevute: quella riguardante le temperature. D’altra parte, essendo già stato in Islanda e Norvegia, credevo di essere vaccinato contro il gelo, ma vi assicuro che passare sette giorni dove la temperatura difficilmente supera lo zero anche nelle ore più calde della giornata, è stata davvero una grossa prova.
Facciamo un breve tratto di treno collega l’aeroporto e la metro. Dopo una ventina di minuti una voce farfuglia parole incomprensibili, non soltanto per me ma anche per chi vive da anni in questa metropoli. Fortunatamente Marco ha internet e individua la fermata dove scendere, o la presunta tale, visto che parliamo della metro di New York: 380 km suddivisi su 25 linee per 472 stazioni, praticamente un’autostrada sotterranea. Riuscire da subito a distinguere su quale treno salire e quale direzione intraprendere è stata un’impresa, ma nel giro di pochi viaggi abbiamo imparato a destreggiarci anche tra i sobborghi meno raccomandabili della grande mela.
Una brusca frenata ci annuncia l’arrivo a destinazione. Essendo il nostro hotel nel cuore di Manhattan, ci saremmo attesi una stazione della metropolitana più curata. Invece ci ritroviamo a percorrere dietro a un vacillante clochard una lunga e stretta scalinata piastrellata in pieno stile cucina della nonna. Con quasi 30kg di borse ciascuno non possiamo far altro che imitarne la camminata… Non avevo neanche terminato l’ultima rampa che un’esclamazione di Simone mi fa pregustare quello che fin da bimbo avevo sognato di vedere. Sfidando il vento gelido che mi aveva costretto a tenere la testa china fino a quel momento, alzo lo sguardo al cielo e cerco di riuscire a vedere la fine di quei palazzi interminabili. Per un attimo ci troviamo tutti e quattro a girare su noi stessi affascinati come bimbi. Davanti a noi, un’installazione artistica con la scritta rossa “HOPE” ci regala il miglior benvenuto che potevamo desiderare. Marco interrompe il nostro stupore facendoci notare che fa un certo freddo e che la nostra destinazione è ancora a un paio di isolati.
Niente… nonostante il peso delle valigie continuiamo a camminare a testa alta, sbalorditi da quegli edifici che ti danno la sensazione di essere in un film. Raggiungiamo subito il nostro hotel. Ma non facciamo in tempo ad appoggiare le valigie che siamo di nuovo fuori. Un po’ per la fame, un po’ perché attirati come mosche da quelle luci che si vedevano in fondo alla strada: Times Square, unico posto al mondo dove la notte sembra il giorno e il giorno è il doppio più luminoso. Un’infinità di schermi di ogni dimensione e forma proietta H24 pubblicità di ogni sorta. Rimarrete letteralmente sbalorditi dalla quantità di gente presente o che attende al semaforo il turno per attraversare.
Un andirivieni continuo di etnie e colori. Se vi siete mai chiesti quale sia il centro del mondo qui troverete una possibile risposta. Il borbottio del nostro stomaco ci fa entrare in un fast food. Costretto su uno sgabello tra la macchina del ghiaccio e la mensola vista strada, mi concedo il primo di una lunga serie di panini che di americano ha ben poco, anzi, mi ricorda il pranzo al sacco della gita di quarta elementare. Scarto due metri di carta stagnola, e ilpane è così morbido da essere degno del peggior discount. Non mi sono mai domandato quali fossero i quattro formaggi fusi al suo interno, ho solo addentato e masticato. Ecco, I miei primi 7 dollari li ho spesi in questo modo.
L’indomani la sveglia suona presto ma, sarà stata l’adrenalina, nonostante il fuso e le poche ore di sonno, ci siamo alzati subito. Ok, si parte. La giornata, ricca di impegni, viene scandita da una tabella di marcia modalità esercito. Basta la prima tappa però per mandare tutto a puttane, dandoci un chiaro indizio circa la piega che avrebbe preso la settimana. La colazione ci ruba più tempo del previsto e notiamo subito la leggerissima differenza di cultura riguardate il cibo. In questo campo Italia batte USA 9 inning a 0, senza bisogno nemmeno di far terminare la partita. In fila ordiniamo e aspettiamo il nostro turno per ricevere quanto scelto, sempre che si riesca a comprendere il proprio nome storpiato in uno slang incomprensibile, roba che mia nonna sarda l’avrebbe pronunciato meglio.
Sparpagliati e rigorosamente in piedi, facciamo colazione. Ed è qui che all’italiano medio già partono le prime imprecazioni. Con la mano sinistra cerchi di morsicare un muffin senza mangiare la carta, con la destra sorseggi un “caffè” americano da un litro che al primo sorso ti brucia per l’intera settimana le papille gustative. Capirai soltanto successivamente che la sua utilità è un’altra ovvero portarlo in giro per scaldarsi le mani nelle polari giornate newyorchesi. Nel frattempo ti domandi perché mai non hanno messo almeno il triplo dei tavoli o semplicemente quattro sedie per tavolo visto che c’era anche posto. Domanda di cui nessuno sa la risposta.
Non è ancora finita la colazione che inizio già a pregustare il dolce suono dello scatto. Ho con me una memoria da 64 GB tutta da riempire, montata su una Canon 5d Mark III con l’inseparabile grandangolare 16-35. La scelta dell’ottica è pressoché obbligata, visto che spesso si sente il bisogno di un fisheye tant’è il desiderio di catturare il più possibile in un unico scatto. Il grande limite di quest’ottica affiorerà presto. Camminando tra le street e le avenue per raggiungere la nostra prima meta, passiamo sotto al grattacielo del più blasonato giornale d’America, il New York Times. Cercando di fotografarlo in tutta la sua interezza si è però costretti ad assumere posizioni strambe, spesso in mezzo a una strada e solo nel breve tempo dedicato al passaggio pedonale. Ne esce un compromesso ai limiti tra lo scatto artistico e la fisica applicata in ambito architettonico.
La mattinata, nonostante il freddo, ci riserva un sole splendente e un bel cielo azzurro. Occasione che mi rende un bimbo in un negozio di giocattoli. Scatto compulsivamente una moltitudine di foto, per la maggior parte 45° sopra l’orizzonte. La “gestione della luce” è davvero difficile, soprattutto nelle ore centrali della giornata. Scattare con diaframma troppo chiuso o con tempi molto stretti, permette sì di esporre correttamente il cielo e i grattacieli scintillanti, ma tutto quel che si trova in ombra subirà la maledetta condanna delle tenebre. Bisogna trovare così il giusto compromesso, o seguire il famoso detto di un mio carissimo amico: o tutto al sole, o tutto all’ombra. Semplici parole che mi insegnarono a muovere i primi passi nel meraviglioso mondo della fotografia.
Dopo una fugace visita al museo delle cere ci dirigiamo verso la tappa successiva: la Grand Central, ovvero la stazione ferroviaria più importante di New York. Appena varcate le porte che danno sulla 42° strada, capisci subito di essere in un luogo importante e ricco di storia. Amo questi spazi così grandi, dove milioni di persone e sguardi si incontrano anche solo per un attimo. Dove si intrecciano storie di addii e di grandi ritrovi. Ecco, tutto questo a noi arrivò soltanto in un secondo momento, perché appena entrati siamo stati rapiti dai bellissimi panini esposti in una delle due navate, un tempo adibite a sala d’aspetto e che ora ospitano invece un ristorante, un bar, e altri piccoli chioschi alimentari. Devo dire che ricorderò il panino di quel giorno per tutta la settimana come esempio di un pranzo decente.
Una volta rifocillati scendiamo nella sala principale, passando sotto un’immensa bandiera americana. Il posto è davvero grande e frequentato. Al centro si trova l’edicola circolare dell’ufficio informazioni, sormontata da un immenso orologio sferico in opale a quattro quadranti, simbolo del terminal stesso. Si stima abbia un valore di oltre dieci milioni di dollari oltre a essere l’indicatore dell’ora esatta per tutta l’America. Soltanto dopo questo breve tour, grazie all’ausilio dell’audioguida scopriamo che vi è anche un piano sottostante, che ospita diversi ristoranti e un coloratissimo mercato. Samuele coglie anche l’occasione per una pulizia molto accurata delle scarpe, che un’intera squadra di inservienti effettua ai passanti su comode poltrone di pelle. La luce tenue che inizia a filtrare dalle mastodontiche vetrate ci indica che è giunto il momento di passare alla tappa successiva.
La meta, stabilita già al mattino, è la nostra prima tappa fondamentale: il 70° piano del “Top of the Rock” al fine di godere appieno del tramonto sulla Grande Mela. Alla maggior parte di voi questo nome non dirà niente, ma sono sicuro che quasi tutti conoscete questo posto con un altro appellativo: il Rockefeller Center. Sì, proprio lui, il complesso al centro del quale, durante il periodo di Natale, viene installato un gigantesco albero illuminato che domina la pista di pattinaggio sottostante. Sembrerà strano, ma non ci si rende conto della sua altezza finché non si è veramente sotto. Questa cosa accomuna molti dei grattacieli di Manhattan, perché spesso se ne intravede la punta, ma come in un gigantesco labirinto, sembra di non riuscire a raggiungerli. Quando si è sotto però, si fa quasi fatica a vederne la fine. Ogni volta che alzi lo sguardo (e fidatevi che qui vi verrà la cervicale a forza di farlo) sembra davvero che finiscano tutti a punta tant’è la loro altezza.
Mentre il display di un ascensore super-veloce scandisce la salita verso il 70° piano, un alquanto improbabile video proiettato sul soffitto della cabina ti mostra di essere arrivato in cima, e anche oltre. Un suono indica che sei giunto a destinazione. Dalle immense vetrate del corridoio: puro spettacolo! Per la prima volta riusciamo a vedere i tetti della maggior parte di quei palazzi di cui prima potevamo solo immaginare la fine. Una porta in fondo a questo breve corridoio dà la possibilità di uscire su una delle due terrazze. La vista è mozzafiato. I vetri alti tre metri e larghi altrettanto, messi a mo’ di ringhiera, ti permettono una vista a 180° sulla città. Un piccolo spazio tra l’uno e l’altro consente di buttare un occhio al di là del vetro, senza filtri. Al centro della visuale svetta in lontananza il simbolo di New York, l’Empire State Building, che domina la parte centrale di Manhattan.
Andando nell’altra terrazza si vede invece la parte alta dell’isola. La maggior parte delle guide sconsigliano di accedervi dopo il tramonto poiché quell’immenso rettangolo privo di grattacieli (mi riferisco a Central Park ) apparirà per l’appunto come un “immenso rettangolo privo di grattacieli”… ma completamente nero! Una piccola chicca per fare degli scatti privi di riflessi o aloni vari: nel piccolo spazio che c’è tra un vetro e l’altro entra giusto giusto il grandangolo, ma dovrete fare diversi tentativi visto che si gioca sui millimetri. Fate attenzione però agli agenti della sicurezza: non si sono dimostrati proprio entusiasti di questa mia scoperta. Qui non è possibile portare cavalletti, se avete necessita di fare scatti con tempi lunghi il mio consiglio è di provare a scattare addossandosi il più possibile ai vetri, tenendo l’obiettivo incastrato tra di essi a mo’ di leva.
Non appena le luci del giorno iniziano a calare, lo scenario cambia completamente. Quei palazzi che prima erano un semplice riflesso del cielo e dei colori del tramonto, diventano cuori pulsanti di una città di 8 milioni e mezzo di abitanti. Le luci sembrano accendersi come candeline dietro ogni singola vetrata Le strade sottostanti diventano piste per Micro Machine tutte colorate di giallo. In lontananza la moltitudine di luci rende facilmente distinguibile Time Square. Purtroppo però, come già sapevo, era il momento di scendere. A malincuore abbandono quella vista da poster per raggiungere gli altri, diretti al Madison Square Garden per una partita NBA…
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